Se tutti quelli che lo chiamavano zio fossero stati suoi nipoti, Giuseppe Marano avrebbe potuto vantarsi di essere stato più prolifico del mitico re di Troia. Invece zio Giuseppe, dopo la nascita di Barberina, aveva atteso invano un figlio maschio dal quale sperare la perpetuazione del suo nome e cognome.
Di zio Giuseppe, lo chiamavo anch’io così, ricordo il mantello nero col collo di peluche, il cappello alla calabrese e la folta barba dalla quale spuntava la lunga cannuccia della pipa di terracotta. Meglio che le sue fattezze fisiche, ricordo le tante storielle che si raccontavano sul suo conto e che ne facevano un misto di stupidità e di furbizia.
Si raccontava che da piccolo, lasciato dal padre a guardia delle numerose grate di fichi allineate sull’aia, aveva dato fuoco alla casa per uccidere una serpe che aveva visto strisciare sul tetto. Era ancora "Giuseppiello", un ragazzo di dodici-tredici anni, e non c’era da meravigliarsi se il suo cervello non si fosse ancora del tutto sviluppato.
Aveva, però, più di venti anni quando, per farsi bello con la sua amorosa, mangiò una trentina di fichi d’india caldi di sole d’agosto. Lui stava per lasciarci la pelle e la gente, compresa Concettina, per la quale tanto aveva fatto, ne rideva, con grande bile del padre che malediceva la moglie per aver partorito un figlio tanto sciocco.
Era, poi, già vicino alla vecchiaia quando, alla prescrizione del medico di trenta bagni di mare, una domenica di luglio era andato ad Agropoli e in poche ore se n’era fatti addirittura trentacinque.
Ho raccontato di Zio Giuseppe solo tre brevi episodi sufficienti a dare idea di quello che la mia deformazione professionale mi porta a definire "livello intellettivo". Tuttavia non posso fare a meno di raccontarne un altro: quello che ne consacrò la furbizia la quale per non poche persone era, ed è, sinonimo di intelligenza.
Da buon cristiano, dopo la morte del padre, zio Giuseppe era andato a confessarsi e, nel corso della confessione, aveva chiesto a Don Domenico cosa avrebbe potuto fare, quali preghiere recitare per agevolarne l’entrata in paradiso. Don Domenico, forse pensando di avere a che fare con uno sciocco, gli disse che le preghiere sarebbero state di molto aiuto per l’anima del padre, ma molto di più gli sarebbe valso per un sicuro ed immediato ingresso nel regno dei Santi se il figlio, cioè lui, zio Giuseppe, avesse donato a Santa Madre Chiesa almeno una salma di grano.
Qualche giorno dopo zio Giuseppe, così si raccontava, caricò l’asina con la richiesta salma di grano e si recò alla casa di Don Domenico. Il portone era già aperto per cui entrò direttamente nel cortile.
"Don Domenico," chiamò, "vi ho portato la salma di grano".
"Bravo, figliuolo. Bravo. Scarica l’asino e metti il grano nel locale vicino alla scalinata."
Don Domenico stava per richiudere la finestra dalla quale si era affacciato, quando zio Giuseppe gli gridò: "Don Domenico, ma siete proprio sicuro che con questo grano mio padre andrà in paradiso?"
"Ma certo. Ti posso assicurare che tuo padre è in paradiso da quando il tuo asino ha varcato la soglia della mia casa".
Zio Giuseppe rimase per qualche istante soprappensiero. "Ma ne siete proprio sicuro sicuro che ci è già entrato?"
"Sicuro, sicuro!"
"Beh," fece allora zio Giuseppe, "se vi è già entrato, è fesso se se ne esce".
E voltato l’asino ritornò a casa col suo grano e con la coscienza di aver fatto il suo dovere di figlio.
Inserito il 21-02-2010