Era stato già messo il passante al portone e stavamo tutti intorno al focolare in attesa della cena.
"Chi sarà a quest’ora?" si preoccupò mia madre ansiosa, per un suo figlio in Africa, sentendo bussare.
Era il giovane Umberto Pascale di Matonti. Lo conoscevamo benissimo per la lunga amicizia tra le nostre famiglie.
"Mi dovete scusare, ma sono venuto a chiedervi un favore" disse volgendosi a mio padre. "Mi dovete dare la chiave della vostra casa di campagna. Ve le riporterò domani mattina."
"E a che ti serve?"
"Mio padre, sapete che uomo è, mi ha cacciato di casa e non ho dove dormire."
"Ne avrai combinata una delle tue" intervenne mia madre che, come del resto tutti noialtri, conosceva quanto fosse discolo quel giovanottino così educato nel parlare.
"Non mi crederete, ma non ho fatto niente. Mi ha dato una bastonata che se non l’avessi deviata con l’ombrello, mi avrebbe ammazzato e poi mi ha detto che dovevo andare a buscarmi il pane, perché a casa sua non ci devo mettere più piede."
"Ma stavi bisticciando con qualcuno."
"Macché, stavo a letto e fortunatamente non dormivo."
"E stavi a letto con l’ombrello?"
Umberto esitò per qualche istante.
"E’ che sapendo che mio padre a tradimento viene a darmele mentre dormo, ieri notte mi portai un ombrello a letto. Così quando questa mattina l’ho sentito salire per le scale e poi l’ho visto entrare nella mia camera col il bastone, ho aperto l’ombrello e mi ci sono riparato sotto. Era l’ombrello nuovo e mio padre, spilorcio com’è..."
La trovata dell’ombrello per ripararsi dalla pioggia di bastonate suscitò in tutti noi un’euforica risata. Ne rise anche Umberto che alla fine si decise a raccontarci perché suo padre, un uomo che non sapeva stare allo scherzo, lo aveva scacciato di casa come un cane rognoso. Ci raccontò che la sera precedente, ultima di carnevale, dopo la mascherata, alcuni suoi amici gli avevano chiesto di partecipare ad un pranzetto al quale ognuno di loro avrebbe contribuito con qualche cosa da mangiare. Una serata da trascorrere in allegria. Niente di più. Lui aveva portato un gallo.
"Pensavo che un figlio di diciassette anni ha il diritto di mangiarsi un gallo con gli amici. Ma vai a dirlo a mio padre. Questa mattina si è accorto che il gallo non cantava più ed è venuto nella mia camera per uccidermi."
Questo ci raccontò Umberto. Il resto lo raccontò suo padre il giorno dopo a mio padre andato a riportare a casa quel "bravo" figliuolo di un padre troppo severo.
"Avevo saputo che i giovani stavano preparando un pranzetto e sicuro che Umberto non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione per fare baldoria, gli avevo detto che poteva contribuire con un paio di conigli, con un paio di polli, con tutta la salsiccia che voleva, ma guai se mi toccava il gallo. Un gallo che tutte le mattine, appena giorno, inondava l’intero paese col suo prolungato chicchirichì. Non ne avevo mai avuto uno simile. Ieri mattina tardava a cantare. Chissà perché il gallo non canta questa mattina dissi a mia moglie, guardammo l’orologio. Poi, come sono solito fare, dal letto allungai la mano per prendermi la pipa dal taschino della giacca. E che mi metto in bocca?"
"Una penna del gallo" arguì mio padre.
"Ma quale penna! Le zampe, capisci Le zampe del mio gallo che quel debosciato aveva messo al posto della pipa. I figli di oggi, caro Nicola, non hanno alcun rispetto per i genitori."
I due padri si guardarono negli occhi. Qualche istante di silenzio, poi... con una compiaciuta risata: "Ma che figlio di buona mamma!"
Inserito il 10-02-2010