Masone era un uomo di poche parole. Raramente si fermava a scambiare quattro chiacchiere con un suo vicino di casa e ancor di più raramente, per non dire mai, con una persona estranea con la quale si era imbattuto per caso. Quando, però, era in vena di parlare, riusciva piacevole ascoltarlo per il tono tra l'ironico e il canzonatorio col quale esprimeva i suoi giudizi, non sempre benevoli, su uomini e cose.
Non frequentava le bettole e nelle calde sere d'estate non si univa agli altri a prendere il fresco sulla trave che faceva da sedile lungo il muro della torre medievale, la quale non era stata ancora fatta abbattere da un sindaco rispettoso delle memorie storiche.
Forse per foia, forse per evitare la cosiddetta "tassa sul celibato", si era sposato molto giovane e, molto giovane, si era trovato padre di cinque figli di cui due maschi. Crediamo che fu proprio la presenza di cinque figli più che lo spirito patriottico, di cui aveva dato prova dando il nome "Italia" alla seconda figlia, ad indurlo ad arruolarsi volontario per la conquista dell'impero.
"Io ti saluto e vado in Abissinia, cara Virginia, ritornerò".
Virginia, così si chiamava la moglie, una donna simpatica quanto vivace, lo attese per oltre tre anni ed è da credere che se lo attendesse "un bel fiore", ossia un bel regalo, come prometteva la famosa canzone, ma Masone ritornò da "sotto il cielo dell'equatore" a mani vuote e più immusonito di quando era partito.
Mal d'Africa? Trascorreva quasi tutti i giorni in campagna a coltivare il suo pezzo di terra, anche se il profilo del volto per nulla segnato dal lavoro dei campi, la camicia pulita, i pantaloni stirati, le scarpe lucidate, la barba rasata lo rendevano diverso dai comuni campagnoli del suo paese.
In vero Masone, in Africa, aveva fatto sua la certezza che l'Italia fosse destinata a ripetere i fasti dell'antica Roma. Era, quindi, dovere di ogni italiano assumere comportamenti più consoni al futuro di gloria al quale la Patria era destinata. Ma, soprattutto, occorreva educare la gioventù alla lotta, al sacrificio, perchè "è l'aratro che traccia il solco, e la spada che lo difende".
Intanto, lui, nella singolarità, s'ingegnava a dare ai suoi figli, Gennarino di dieci anni e Minicuccio di otto anni, una concezione eroica della vita, ad insegnare loro come ci si comporta sui campi di battaglia, come si combatte. A Gennarino e a Minicuccio quel gioco divertiva un mondo: si strisciava sul terreno, si correva curvi lungo le siepi, ci si nascondeva negli anfratti, e si tiravano sassi verso le postazioni nemiche. Quest'ultima esercitazione, la sassaiola, ovvero la fucileria, era particolarmente divertente, anche se la distanza tra le postazioni rendeva difficile colpire il bersaglio e, naturalmente , meno attraente il gioco.
Fu proprio per rendere più attraente il gioco che Gennarino, durante un'esercitazione, approfittando che Masone stava battagliando con Minicuccio, gli si fece alle spalle e giunto a tiro, gli lanciò un sasso che raggiunse il bersaglio con una precisione degna dell'"intrepido Balilla".
Quando Gennarino si accorse di aver rotto la testa al padre, impaurito e piangente, se la diede a gambe. Ma Masone lo redarguì: "Perchè fuggi? La colpa è stata mia. Io non mi sono saputo guardare alle spalle e tu mi hai colpito. Ti sei comportato da valoroso soldato. Torna qui: meriti una medaglia".
Non sappiamo se quella esercitazione fu più mai ripetuta.
Inserito il 21-02-2010