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Roberto Marino

Ma quelle mutande...

In un paese di poco più di mille abitanti, come quasi tutti quelli del Cilento, un matrimonio offre l'occasione per una festa collettiva.
Una festa prevista e pregustata già da alcuni giorni prima, quando gruppi di amici della sposa e dello sposo andavano a cantare le serenate che si concludevano al grido: "Caro compare, prendi la chiave e scendi nel bottaio". E nel bottaio, ossia nella cantina, si cantavano canzoni d'amore alla cilentana e soprattutto si beveva.
Un altro momento anticipatore della festa nuziale era l'esposizione del corredo, prima che questo venisse trasferito dalla casa della sposa a quella dello sposo. A questa, diciamo pure cerimonia, partecipavano soprattutto le donne: per ammirare, per criticare, per fare confronti più o meno soddisfacenti, più o meno invidiosi.
Il momento del trasporto era anch'esso un festoso preludio. Decine di ragazze, con dei cesti di vimini ben adornati e con dentro dei pezzi di biancheria, partivano in lunga fila dalla casa della sposa e giungevano a quella dello sposo, dove avrebbero trovato confetti e dolcetti vari, non esclusi i "mustacciuoli".
A sposarsi in quell'aprile di fine Ottocento erano Vittorio, figlio di un ricco commerciante di vino ed Elisa, appartenente ad una famiglia di un casato piuttosto antico, ma alquanto decaduta. Per cui il padre dello sposo a chi gli ricordava che Elisa apparteneva ad una famiglia comunque col "don", rispondeva che il "don" senza denaro dava il suono di una campana rotta.
Elisa era veramente bella, e poiché l'amore vince ogni cosa, Vittorio aveva vinto l'opposizione del padre, restio ad un matrimonio che portava in dote solo alterigia. Il padre di Elisa, però, era orgoglioso e, pur con grande sacrificio e forse ricorrendo a qualche debito, aveva dato alla figlia un corredo molto ricco e in gran parte ricamato dalle suore. Anche il mobilio usciva dal comune, sia per qualità, sia per numero di mobili.
Era quindi un matrimonio fra gente di ceto sociale abbastanza elevato ed è naturale che tutto il paese seguisse il corteo che accompagnava la sposa alla chiesa, dove l'attendeva lo sposo.
Fu nel breve tragitto tra la casa della sposa e la chiesa, che avvenne il tragicomico episodio che sto per raccontare.
Prima però una premessa: per chi non lo sapesse, le mutandine, fino all'inizio del secolo scorso, non facevano parte del corredo, anzi le donne non ne facevano uso. Fu con l'accorciarsi delle gonne che si sentì il bisogno o la necessità di questo indumento intimo: una sorta di calzoncini che venivano allacciati ai fianchi con delle nocchettine.
Non sappiamo se Elisa avesse mai prima di allora indossato un tale indumento. Certo è che il corteo aveva percorso appena un centinaio di metri, quando la poveretta sentì scorrersi giù per le gambe le mutandine male allacciate. Disperata, non sapeva se fermarsi o continuare a camminare a passettini molto brevi, quali erano permessi dalle mutandine scese fin sulle scarpe. Decise di fermarsi e fece cenno alla sarta, che le camminava accanto orgogliosa per il bel vestito che aveva cucito alla sposa, di avvicinarsi per poterle sussurrare l'accaduto. La sarta non si perse d'animo: fece fermare il corteo, e impose agli uomini di volgersi all'indietro e tenere gli occhi chiusi, tolse il braccio della sposa da quello del padre e con l'aiuto di una zia, quasi sorreggendola, accompagnò la povera Elisa in un locale mezzo diruto che aveva fatto parte di un mulino ad acqua.
Naturalmente il corteo si era fermato con le gambe, ma non con le supposizioni mentali: perchè la sposa è stata accompagnata dietro quel muro? Un conato di vomito, un impellente bisogno di fare la pipì ? O che altro? Qualche minuto e la sposa, questa volta a passi più liberi, rossa in viso, e qualche lacrima negli occhi, riprendeva il braccio del padre per proseguire il percorso fino alla chiesa.
Naturalmente il segreto di quella imprevista sosta non durò più del tempo necessario alla cerimonia, suscitando contenute risate e maliziosi ammiccamenti.













Inserito il 21-02-2010





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