Don Nicandro, il parroco di un paese vicino al mio, era uno di quegli uomini per i quali il Padreterno non perde tempo nelle rifiniture. Alto circa un metro e novanta, robusto come un immagine michelangiolesca, aveva la testa unita al corpo da un collare di carne butterata che la facevano apparire come poggiata su un tondo di San Giovanni. Due profonde rughe dagli zigomi al mento davano alla faccia l’aspetto di un bull-dog. Il naso, poi, ricordava il peperone per la forma e il peperoncino per il colore. Brutto? Direi proprio di sì.
Ma Don Nicandro, il quale sapeva che l’uomo non è nel suo fisico, ma nella sua anima, non se la prendeva affatto, anzi, ringraziava Dio di non averlo fatto oggetto di peccaminose tentazioni, e continuava a sorridere ai bambini che alle sue carezze si aggrappavano impauriti al collo della mamma.
Fino a circa cinquant’anni la vita di Don Nicandro si era svolta senza grossi problemi, tranne quello di un nipote, maestro elementare, che si era innamorato di una ragazza senza un soldo di dote.
Il primo vero dispiacere lo ebbe il 2 giugno del 1946. L’aveva suggerito dall’altare di votare per la monarchia e, tuttavia, i suoi parrocchiani avevano in maggioranza votato per la repubblica. Quella disubbidienza gli provocò un grande dispiacere: al punto tale che tolse il saluto ai presunti responsabili di quell’esacrando risultato.
Ma experientia docet. Quando due anni dopo il cosiddetto "Fronte popolare" minacciava, come Don Nicandro non si stancava di ripetere, di dare all’Italia, centro del cattolicesimo, un governo ateo, dissacratore di ogni virtù civile e religiosa, non esitò ad impegnarsi molto più attivamente per la salvezza dei sacri valori della fede e della Patria. Così, quando un socialista o un comunista giungeva in paese per tenervi un comizio, ordinava al sagrestano di suonare le campane "a gloria" fino a quando quel nemico di Dio, stordito dal sacro scampanare, non se ne fosse andato a vendere altrove le sue "bestemmie".
Don Nicandro non teneva comizi in piazza. Non perché non ne fosse stato capace, ma perché riteneva che i comizi erano una forma di violenza verbale verso la libertà delle coscienze. Le sue prediche e le sue omelie? Tutt’altra cosa: erano parte di un rito sacro il cui unico fine era l’educazione del popolo alla fede e alla verità del Signore il quale, aggiungeva, "Vede che si fa anche nelle cabine elettorali".
Quell’anno Don Nicandro, nel benedire le case in occasione della Santa Pasqua, non si limitava a spruzzare l’acqua benedetta e a raccogliere le offerte dei fedeli, ma si fermava a chiacchierare con loro, ad informarsi dei loro problemi e non mancava di far intravedere la possibilità di un suo aiuto (si trattasse di una pratica pensionistica, della ricerca di un lavoro stabile nelle ferrovie o nelle poste), sempre che il suo amico, di cui dava nome, cognome e numero di lista, fosse stato eletto.
Ma i mezzi di persuasione su chi votare e, soprattutto, per quale lista votare, non erano soltanto questi. Don Nicandro ne aveva un altro, frutto di una profonda riflessione filosofica, sul principio di uguaglianza della così detta dottrina marxista. Agli interlocutori che gliela ricordavano, spesso al solo scopo di farlo arrabbiare, chiedeva: "Le dita delle mani sono uguali? Il vostro viso è uguale al mio? Conoscete due persone, due gatti, due cani, due asini, due alberi, due pietre perfettamente uguali tra loro? Certamente no. E sapete perché? Perché Dio nel creare il mondo non volle che esistessero due cose uguali. Quindi chi predica l’uguaglianza si mette contro la volontà di Dio. Commette peccato mortale! Volete votare per il Fronte popolare? Fatelo pure. Ma poi non venite a chiedermi l’assoluzione dei vostri peccati. Non potrei darvela".
In questo modo, con parole semplici, spiegando, persuadendo senza commettere alcuna violenza verbale, Don Nicandro il 18 aprile del 1948 poté essere contento dei suoi parrocchiani che in maggioranza avevano votato per la Democrazia Cristiana.
Proprio alla preparazione delle elezioni di quel 18 aprile si lega un mio ricordo personale di Don Nicandro. La Chiesa, come molti ancora ricordano, all’appressarsi di quella fatidica data, mobilitò tutte le più miracolose immagini sacre per un giro di propaganda elettorale in favore della Democrazia Cristiana, ma soprattutto contro il Fronte popolare. Nel Cilento quest’operazione fu affidata alla Madonna di Novi Velia. Posta sopra un furgoncino adeguatamente addobbato, preceduta da un camion carico di preti e di monaci, giunse al mio paese verso le dieci del mattino di quella fresca primavera. Don Nicandro, alto di una spanna su tutti gli altri, rosso in viso, con i capelli che gli scendevano sugli occhi, nero vestito, dava l’idea di una mamma cornacchia circondata dalla sua nidiata. Invasato da raptus mistycus, alternava al grido di "Viva Maria!" un imperioso "inculatevi" (inginocchiatevi) alla folla assiepata ai margini della strada attratta più dal suo teatrale gesticolare che dalla sacra immagine, la quale passava muta nella sua dolcezza tra il bisbigliare di rosari e qualche ironico risolino.
Inserito il 21-02-2010