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Roberto Marino

Buonasera, Eccellenza!

Dovevi vederlo quando, alto, grosso, più vicino ai centocinquanta che ai cento chilogrammi, seguito dal suo chauffeur, percorreva le poche centinaia di metri di selciato che portavano al garage, o quando, "solenne come un monumento", sedeva a prendere il fresco sul balcone del suo studio o, più raramente, sul sedile di pietra viva a lato dell’ampio portone del suo "palazzo".

"Buonasera eccellenza, Commendatore", salutavano inchinandosi e scoppolandosi le persone anziane, mentre i giovani preferivano il saluto fascista, senza tuttavia omettere il titolo di "Eccellenza". Solo a chi gli gridava ben forte questo titolo il Commendatore si degnava di rispondere. L’"illustrissimo" e ancor più il "vostra signoria", erano titoli ormai troppo volgarizzati, titoli che potevano essere accettati dai suoi dirimpettai, componenti di una famiglia di antica nobiltà, ma ormai quasi decaduta in ricchezza e senza un professionista paragonabile a lui, principe del foro di Salerno.

Purtroppo nessuno è felice in questo mondo! Non aveva figli e questo lo rendeva spesso pensoso e malinconico. Lui abituato a servirsi di massime e sentenze tratte dai grandi oratori greci e latini, un giorno, mentre distribuiva la strenna natalizia agli otto figli del suo colono che, ognuno con un pollo sotto il braccio, erano andati a baciargli la mano, si sorprese a ripetere il detto popolare: "Il Padreterno manda pane a chi non ha denti, e figli a chi non ha niente! Una ingiustizia!"

Il Commendatore Angelo Maria Principe non era propriamente ricco. Le terre che possedeva non lo mettevano al di sopra dei tanti piccoli proprietari che non sempre riuscivano a pagare la fondiaria senza doverci aggiungere i diritti di mora. Era la professione a permettergli una costosa automobile, lo chauffeur, la cameriera, una diecina di gatti belli, grassi e coccoloni, di fumare sigarette "Macedonia" per un valore corrispettivo a quello dei tre porcellini acquistati dal suo colono sulla fiera di Sant’Antonio e, non ultimo, la possibilità di accompagnare il "pane quotidiano" con un mezzo chilogrammo di pasta asciutta, e, a seconda delle stagioni, con un ruspante, un coniglio, un mezzo capretto al forno con i relativi contorni.

Intanto si parlava di guerra. Il Commendatore si vide dapprima sfilare la fede d’oro dal dito, poi disabbellire la parete della cucina coperta da pentole, teglie, casseruole di lucido rame, infine smontare le gomme della sua automobile.

Fu questo il colpo più grave. Non potendo servirsi dell’automobile, non poteva andare a Salerno con la necessaria assiduità. Dovette perciò rinunciare alla difesa in tribunale e in corte d’assise e limitare la sua attività alla difesa dei ladri di pollo nella vicina pretura. I guadagni professionali si ridussero fino a scomparire quasi del tutto, mentre le terre venivano abbandonate dai contadini chiamati a fare grande l’Italia.

Per qualche tempo aveva sperato che la guerra si concludesse nel giro di poche settimane o di pochi mesi: lui avrebbe ripreso la propria attività fisicamente e spiritualmente rinvigorito dopo il forzato riposo, e la vita sarebbe ritornata a scorrere come prima.

Presto, però, si rese conto che la tanto conclamata "guerra lampo" era da considerare un borioso slogan propagandistico, e, ad un tale che gli parlava di un’arma segreta che avrebbe assicurato la vittoria alle armate italiane e tedesche, col rischio di essere denunciato come disfattista, rispose che "Le guerre, come i baci, si sa come hanno inizio, ma non si sa come finiscono."

Senza figli, né amici, con lo spettro di un possibile stato di bisogno, se non addirittura di povertà, incominciò ad avvertire sempre più l’angoscia della solitudine e la tristezza dell’imminente vecchiaia.

Dimagriva, e non soltanto perché la sorella e la moglie trovavano sempre maggiore difficoltà a mettergli nel piatto qualche cosa di più sostanzioso di ciò che era segnato nella carta annonaria. Dimagriva perché sapeva che per lui non esisteva avvenire, che non avrebbe messo mai più piede in un’aula di tribunale e che, presto, quattro robusti contadini se lo sarebbero caricato sulle spalle e trasportato al cimitero maledicendone il peso.

Con la barba lunga, il barbiere non andava più tutte le mattine a radergliela, con i vestiti che gli ballavano addosso, si aggirava per la casa come alla ricerca di qualche cosa. Toccava questo o quell’oggetto, lo contemplava e lisciava a lungo, sorrideva dietro chissà quale ricordo, lo riponeva e andava a chiudersi nello studio dove più volte fu sorpreso a leggere le arringhe pronunciate nei processi più importanti della sua attività forense.

Più spesso fu visto starsene dietro i vetri del balcone col lo sguardo sperduto in chissà quali arcane lontananze.

La guerra era finita da qualche anno ed ero a casa per una breve licenza. Passando lo vidi seduto sul solito sedile di pietra, con un gatto sulle ginocchia, la testa reclinata sul petto come chi sta per addormentarsi, era l’ombra del "Commendatore".

"Buonasera, Commendatore!" salutai.

Sollevò il capo, mi guardò come per riconoscermi, e mi fece segno di avvicinarmi. "Non lo sai che si saluta 'Buonasera Eccellenza?' "





Inserito il 10-02-2010





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